Oggi, ricordando il mio plurirattoppato glorioso zaino Microchip, ho sguinzagliato Google alla ricerca dei modelli più in voga degli anni 90. Imbarcarmi nella ricerca è stato un errore: ho buttato un’ora di tempo, sottraendolo ad attività più utili, e senza trovaRe uno straccio di immagine che documentasse l’esistenza di quella mitica reliquia.
L’effetto nostalgia è un impulso potente: in stato di ipnosi ho passato in rassegna una galleria psichedelica di zaini Seven e Invicta. Chiunque abbia frequentato in quegli anni scuole di ogni ordine e grado, in quelle improbabili tinte evidenziatore declinate in grafiche a casaccio, ci ha lasciato il cuore.
I modelli erano essenziali: grande vano per il materiale scolastico e tascone anteriore spappola merendine. Tele immacolate nelle mani di artisti estrosi, al secondo quadrimestre c’era più inchiostro su quegli zaini che sulla pelle di Fedez: le ragazze vi appuntavano le iniziali dell’ultima cotta, si scambiavano dediche giurandosi etErna amicizia e trascrivevano passaggi dalle canzoni preferite. I ragazzi, più sobri, si limitavano in genere a professare la loro fede calcistica.
Hai presente il classico spot del detersivo per pavimenti? Incrostazioni alte due dita che neanche a Pompei dopo l’eruzione vulcanica, lasciano il posto al candore abbagliante dopo una fugace passata di straccio. Ebbene, ricordi sepolti da vent’anni sono riaffiorati di colpo, vividi come non mai. SfoGliavo le immagini degli zaini sul monitor e rivedevo i volti dei compagni di scuola che li avevano indossati.
Eravamo timidi scolaretti delle elementari, con i pugni stretti intorno ai grandi spallacci. Ad ogni passo lo zaino, enorme, rinculava colpendoci l’incavo delle ginocchia, conferendo la tipica andatura dinoccolata. Sussidiario e quadernone, maestro unico. Il bambino che per primo perse il papà aveva lo zaino blu e verde. Per molti fu uno shock elaborare la possibilità che un lutto tanto drammatico potesse colpire proprio noi.
Crescevamo in fila per due: tartarughine dai gusci variopinti a predominanza rosa shoking e verde fluo. Il mio amicone con lo zaino giallo e verde cadde e si ruppe gli incisivi. Alle medie ammiravo la compagna con lo zaino fucsia a fantasia leopardata per i suOi brillanti risultati scolastici e i capelli biondissimi. Gli zaini – compagni insostituibili della nostra quotidianità – apparivano meno oversize, attraversando indenni le tante mode passeggere: ciuccini, schede telefoniche e collane tatoo.
I ricordi più indelebili sono quelli dell’adolescenza. Coincidono con quelli della progressiva, solida e duratura affermazione della personalità. È il periodo in cui diventiamo veramente noi stessi, e la nostra memoria fissa quei momenti con una dovizia di particolari, colori, suoni e profumi che non ha eguaLi. Alcuni oggetti ci identificano in maniera univoca, anche a distanza di anni: ricordo l’Alcatel di Sabrina, l’orologio di Lorena, il maglione giallo di Simone; ma sono stati gli zaini scolastici i veri totem dell’infanzia e dell’adolescenza dei “millenials per un pelo”.
Alle superiori, per fare i fighi, portavamo gli zaini su una spalla sola, antesignani dell’Ispettore Catiponda. Molti di noi non hanno mai recuperato la simmetria, e conservano intatte le emozioni, le canzoni e la scoliosi di quegli anni.
Gli antichi ritenevano che la sede della memoria fosse nel cuore. Oggi sappiamo che non è così, ma l’etimologia della parola “Ricordare”, dal latino Re- e Cordis (cuore), suggerisce in maniera molto poetica come rivivere i ricordi li faccia ritornare dalle parti del cuore. Al ritmo dei battiti viaggiamo a ritroso nel tempo, riportando alla luce vissuti, paure e desIderi solamente nostri, riuscendo ad emozionarci come la prima volta. A conti fatti, il tuffo nel passato scaturito dalla mia ricerca non è stato tempo perso. Un’emozione non lo è mai.
La voce e il buio
Si dice che non si decida di diventare un attore o un doppiatore. Semplicemente, lo si è già. Nel mestiere che non ho scelto di praticare, all’interno di una stanza buia con la sola compagnia di un copione, uno schermo e un microfono davanti a sé, l’errore è all’ordine del giorno.
Si sbaglia nell’articolare una parola, ci si perde tra i labirinti semantici di righe contorte e frasi spesso difficili da pronunciare, non si riesce a rispettare il labiale di chi si sta doppiando. Un attore ride, piange, si emoziona e si dispera per noi e per se stesso. Ci consegna una vita che non è la nostra e non è la sua. Persino il suo silenzio, tra una battuta e l’altra, naviga su frequenze che raramente riusciamo a percepire. Cerca il suo equilibrio e, molto spesso, è proprio il non trovarlo a consacrarne il genio.
“Buona, andava bene! Ma sei un po’ scivolato sul finale, ne facciamo un’altra per sicurezza!”. Questo e molto altro è ciò che un direttore (il regista nel campo del doppiaggio) si trova a dover pronunciare varie volte nell’arco di una giornata lavorativa. Eppure, sa benissimo che la seconda prova – seppur magistrale nella musicalità e nell’articolazione – perderà quella scintilla di spontaneità cui il doppiatore si era affidato all’inizio. Semplicemente, non avendo attivato i centri razionali del cervello, per un attimo infinitesimale era stato egli stesso quella battuta.
Capita spesso, soprattutto in film molto vecchi, di imbattersi in doppiaggi non perfetti stilisticamente: voci sporche, audio grezzo, stacchi troppo marcati. Il suono però, di per sé, non esiste senza una fonte ricettiva a percepirlo: ecco perché, in una lavorazione perfetta stilisticamente, il nostro cervello ci porterà a sentire la mancanza di quell’errore, la parte più umana dell’attore.
La memoria acustica, similmente a quella fotografica, va a ricercare suoni a noi familiari che sappiano calmarci, donarci conforto, benessere e protezione. Il medesimo procedimento si verifica anche quando è lo spettatore stesso a cadere in un abbaglio: quanti sarebbero disposti ad accettare che, nel film “The Mask”, il tormentone non fosse “spumeggiante” bensì “sfumeggiante” (dall’inglese “smokin’”)? Che la regina cattiva di Biancaneve non dicesse “specchio, specchio delle mie brame” ma “specchio, servo delle mie brame”? Che la “supercazzola” di “Amici miei” in realtà fosse una “supercazzora”?
L’errore è parte della nostra biologia, è ciò che ci rende umani: ci distingue da un indefettibile orologio atomico che perde solamente un secondo ogni cinque miliardi di anni ma di cui nessuno avrà mai memoria.
Ci impegniamo a costruire macchine efficienti e infallibili: nel lavoro proviamo a emularle, a sbagliare il meno possibile, a essere perennemente performanti e inattaccabili. Dimentichiamo che nella nostra vivace fantasia letteraria ogni robot futuristico lotta con le unghie e con i denti con viti e cingoli per poter diventare umano: chi non ricorda l’emozionante finale de “L’uomo bicentenario”, in cui l’androide Andrew preferisce morire da essere umano piuttosto che vivere per sempre come macchina?
L’errore ci eleva, così nella recitazione come nella vita: d’altronde, anche il miglior comico del mondo non riuscirebbe a far ridere alcuno senza aver prima conosciuto la sofferenza egli stesso.
Alessandro Bianchi, doppiatore e speaker
Realtà aumentata
Trovo sul tavolo la lista della spesa: “frutta, latte, cereali…”. Con il senno di poi, ci avrei scritto: “Buongiorno signor Spiego l’ego. La sua missione, se dovesse accettarla, riguarda la spesa settimanale. Se venisse catturato o uCciso, il governo negherà di essere stato a conoscenza dell’operazione. Questo messaggio si autodistruggerà tra cinque secondi”.
Supermercato. Le porte scorrevoli si richiudono alle mie spalle.
Buio in sala.
Il reparto ortofrutta è una giungla: decine di impiegati riforniscono ceste e scaffali, i clienti sbraitano intralciandosi con carrelli e carrellini. In un angolo, la cassetta delle banane in offerta avvalora le tesi di Darwin e scatena violenti istinti primordiali. Devo pesare delle zucchine, ma aggiudicarsi una bilancia è un gioco di abilità e studio dei tempi degno dei trabOcchetti di Indiana Jones. Abbasso la tesa del mio Fedora immaginario, imbraccio l’iconica frusta e mi lancio nella gimkana. Procedo a zigzag tra ostacoli, ascelle commosse e bancali di merce da etichettare. Una voce dopo l’altra la lista si assottiglia, finché l’ultimo espositore mi separa dall’area delle casse. Chiudo gli occhi e compio il balzo della fede.
L’avventura cede il passo all’horror. Mi trovo immerso in un carnaio infernale degno di Saw l’enigmista. Nel macabro tetris di corpi e carrelli, file sbilenche e tormenti, si consuMano violente torture psicologiche. Un cliente annebbiato ruota il polso e dà gas al carrello: rivive le impennate con il Fifty in cerca di una via d’uscita. Si procede a rilento, manca la coordinazione cliente-cassiera nell’afferrare la merce scagliata nello scivolo metallico. I più deboli soccombono alla pressione e sudando stipano gli articoli nei sacchetti in ordine casuale, versando lacrIme silenziose per le uova finite sotto il fustino del detersivo, che l’importante è togliersi da lì. A casa faranno la conta dei danni.
Più in là, uno spaghetti-western all’apice della tensione: in un’inquieta atmosfera alla mezzogiorno di fuoco, due signore conformi allo stereotipo della casalinga sono affiancate in un’unica fila. Un’inquadratura a piano americano, tagliata all’altezza delle ginocchia, coglierebbe la drammaticità della scena. IstintivameNte porto la mano alla fondina del mio illusorio cinturone. So come funzionano queste cose: dal duello alle bottigliate è un attimo, e il pianista ci resta secco. Una delle signore infila la mano nella borsa e stringe la sua carta fedeltà. L’altra svaga fingendo interesse per gomme da masticare e rasoi quadrilama, guadagnando qualche centimetro con il suo carrello. Sergio Leone proporrebbe un primissimo piano: minacciosi sguardi in tralice, pieghe di espressione, fronti corruGate. I pugni stringono la presa sui carrelli.
Il sottofondo di Morricone viene bruscamente interrotto da uno scroscio metallico, proprio un paio di persone davanti a me. All’atto del pagamento, un anziano signore ha rovesciato una quantità di rame sufficiente a forgiare quattro paioli da polenta. È il dramma: alle mie spalle si levano ululati di autentica disperazione. In condizioni normali anch’io mi lascerei andare allo sconforto, ma la prendo sportivamente: sono in ferie, non ho fretta, e la recente iscrizione al corSo di yoga – convenuta in un moto di riconoscenza verso il mio istinto – mi ha pervaso di armonia e coscienza zen.
Sorrido in solitudine e noto il responsabile del punto vendita che, mento sollevato, effettua una scansione del serraglio. Cosa gli passa per la testa? Mi immergo nel suo campo visivo e mi ritrovo nel casco di Ironman. Un’interfaccia intelligente sOvrappone informazioni utili in realtà aumentata: “Anziano appassionato di numismatica: tempo stimato di pagamento, 4 minuti”. “Mamma con bimbo turbolento: i capricci la distrarranno: 3 minuti”. “Trentenne maschio, tonno in scatola e surgelati: single. Con cassiera attempata, check-out in 45 secondi”. E così via, ordinaria amministrazione. Finché J.a.r.v.i.s non lancia un alert di livello 3: “Esemplare di milanese imbruttito in pensione: si lamenterà della coda che ha contribuito a rallentare e chiederà conto di ogni coupon consegnato insieme allo scontrino. Quando potrò usarlo? Posso cederlo a mio genero? Quando mangerò questi cracker, l’incarto andrà nella plastica o nell’indifferenziata?”
Colgo la scintilla nello sguardo del responsabile. Si volta e parte ad ampie falcate in direzione del suo gabbiotto. Con calma esco dalla fila e mi sistemo nell’unica cassa chiusa, ripOnendo sul nastro i miei articoli. Solo a questo punto il microfono annuncia l’imminente apertura della cassa 5. Nemmeno il segnale di Massimo Decimo Meridio avrebbe scatenato una tale devastazione: il clangore dei carrelli, usati per tagliare la strada agli avventori rinvenienti dalle retrovie, sovrasta lo scalpiccio frettoloso. È una lotta per la sopravvivenza, cui nemmeno i più deboli si sottraggono. In una scena surreale, vedo letteralmente decollare una signora sulla settantina, con il braccio inspiegabilmente teso davanti a sé nella posa di Superman, che disegna una perfetta parabola nell’aria per atterrare rovinosamente su una fila di carrellini-trolley. Un silenzio assordante ferma il tempo, finché un imbarazzato “Sono inciampata” restituisce il battito cardiaco alle persone vicine, che si prodigano per ricomporla. Lei si saggia il femore, pare che abbia retto.
Lieto fine, titoli di coda.
Sconvolto, ma divertito dall’esperienza, guadagno il parcheggio e sistemo i sacchetti nel portabagagli. È finita, penso. Ma c’è un’ultima easter egg, introdotta dal ruggito di un motore tirato a 5.000 giri. Mi volto di scatto aspettandomi la gang di Toretto impegnata in qualche numero alla Fast and Furious. No. È un nonnino alla guida di un residuato bellico una Lancia Thema dell’88 impegnato a parcheggiare in retromarcia. Ha dimenticato di staccare la frizione.
Luci in sala.
Adoro la magia del cinema. Dai colossali impianti multisala, alle antiquate sale ammorbate dalla muffa e dall’umidità, se il film è quello giusto, l’esperienza riesce sempre a coinvolgermi. La tecnologia dell’intrattenimento si evolve rapidamente: pellicole IMAX, effetti 3D e audio digitale promettoNo emozioni sempre più immersive, ma non c’è storia. Non facciamo l’errore di cercare esperienze reali affondati nelle poltroncine. Viverle davvero è enormemente più divertente!