Dedicato a (S)te

Sogni e amnesie. Sono le risorse più abusate da scrittori e sceneggiatori senza fantasia: ogni volta che mi imbatto in uno di questi espedienti narrativi mi viene il latte alle ginocchia. Naturalmente ce l’ho con la mancanza di immaginazione e con le scorciatoie facili, non con i sogni, che trovo fantastici.

Ho la fortuna di essere un onironauta. Significa che, in determinate circostanze, acquisisco la consapevolezza di trovarmi in un sogno, riuscendo a cambiarlo a mio vantaggio. In genere funziona così: se percepisco che la situazione è assurda, noto elemenTi irreali o mi trovo in pericolo imminente, scatta una specie di meccanismo di protezione. La mia razionalità giunge in aiuto e mi siedo alla regia, proseguendo l’esperienza in un sogno lucido. Nella mia personale Matrix sono libero di affrontare ogni antagonista, abbattere gli ostacoli e raggiungere qualunque obiettivo, vincolato solo dai limiti – peraltro ancora inesplorati – della mia fantasia.

È notte, nel letto i nervi cominciano a distendersi. Guardo un po’ il buio, schiarito dai lampi intermittenti del led che dal soggiorno segnala una temperatura esterna inferiore ai 3 gradi. Si sta bene, sotto le coperte! Chiudo gli occhi e mentre il pensiero vaga libero tra gli avvenimenti della giornata e qualche preoccupazione, cedo all’abbraccio di Morfeo.

Con un guizzo l’omino del cervello imbraccia un cestello e inizia a correre di qua e di là, eccitato come un concorrente nella dispensa di Masterchef: “Profumi e ricordi di quella vacanza romantica, un pizzico di trauma infantile, una spolverata di nonsense…”. Tra tanto ben di Dio finisce con l’infilare nel paniere anche roba completamente fuori tema e quando raggiunge concitato la postazione, immancabilmente, si accorge di aver dimenticato l’ingrediente principe: “Nooo! Lo scalogno! La coerenza!”

Il mio sogno tipo è un minestrone impazzito: più audace dell’ultima invenzione di uno chef stellato, più “fusion” di un ristorante cinese che propone la parmigiana di melanzane. Può essere ambientato nella vecchia soffitta dei nonni, nell’anno 2024, con affaccio sugli Champs Elysee, sovrastati dall’astronave di Indipendence Day con il logo di Ehuè. Mi diverto un sacco!

Per il paradosso della rana bollita, però, non riesco a rendermi conto di vivere un sogno se vengo calato piano piano nella scena. Così, se le incongruenze e le storture si presentano poco alla volta, o le emozioni preValgono sulla logica, l’allerta non scatta e mi trovo sempre più coinvolto in quella che percepisco come un’esperienza reale.

È sera, sto percorrendo il viale di un ospedale. Provo un misto di angoscia e preoccupazione, perché sto andando a trovare una cara amica. Stanza 26-ET. Strana numerazione, ma non ci penso: voglio raggiungerla in fretta. Salgo e scendo scalini, mi addentro in un dedalo di corridoi e cunicoli sempre più sinistri. La conosco dalle elementari. Confusi cartelli pieni di frecce indirizzano ai reparti, cerco di orientarmi, la 26-ET dev’essere da questa parte. Mi torna alla mente un ricordo prescolare: una bimbetta di un metro o poco più gioca nel cortile. Suo padre ha affittato un garage nel nostro condominio. Ha dei grandi cani, mi fanno un po’ paura. Una scala più piccola si separa da quella principale, e scende in un interrato da brivido: luci al neon sfarfallano ronzando, fa freddo. Seguo i tubi malconci e ossidati che corrono lungo il corridoio. A scuola stava sempre con l’altra bambina, dalla pelle bianca bianca e i capelli neri neri. Oggi sono entrambe mamme. Una flebile luce dietro un angolo rivela un’intercapedine all’interno del quale hanno sistemato un lettino. Stanza 26-ET. Eccola! Sola e tremante, ha le spalle nude e solo un lenzuolo sdrucito a ripararla dal freddo. Un passerotto caduto dal nido, emblema della fragilità. C’è un termostato: lo regolo e in un attimo la temperatura si fa più gradevole. È contenta di vedermi, non parliamo della ragione del suo ricovero, che realizzo di non conoscere, ma delle cose belle che ci uniscono. Ricordiamo tanti aneddoti divertenti, solo nostri: pullman, strane persone affacciate ai balconi, scuse rivolte ad un albero… e ridiamo insieme. Quando la penombra di quella stanzetta tetra e umida mi ripiomba nel magone, i toni si fanno più seri. Le racconto dell’ammirazione che ho di lei: intelligente, forte, determinata. Negli ultimi anni ha saputo reagire alle avversità in un modo che mi ha davvero colpito. Penso spesso a lei, e anche se non ci sentiamo per lunghi periodi, per me è un modello. Lei si commuove. Anch’io.

Sono sveglio. Ho bisogno di qualche minuto per elaborare le emozioni profonde che ancora mi scuotono. Commetto spesso l’errore di dare per scontate amicizie e relazioni: l’affetto, la stima, la riconoscenza che nutro nei confronti delle persone che mi circondano me la tengo dentro, convinto che – in fondo – loro sappiano già. Non dovremmo precluderci la possiBilità di esprimere la nostra approvazione esplicitamente, fornendo alle persone che apprezziamo le conferme positive che meritano. O le osservazioni critiche più costruttive.

Il cuore non mi dà pace finché non chiamo l’amica di sempre per ribadire nella vita reale quanto confidatole poco prima. La vita le ha riservato molte gioie, ma l’ha anche messa alla prova presentandole il conto con dure sfide da affrontare ogni giorno. Non è sola: può contare su una splendida famiglia. Ma una sincera testimonianza di profondo affetto può fornire uno stimolo in più per affrontare la giornata con un sorriso.

Il risvolto positivo di questo errore? Siamo induriti dal peso della routine quotidiana, i rapporti interpersonali tendono ad essere piuttosto freddi e il filtro degli smartphone può allontanarci gli uni dagli altri. Saremo pure colpevoli di aver trascurato alcuni affetti, ma nel momento in cui rimediamo facendo un passo sincero in direzione dell’altro, possiamo scoprirci più uniti e vicini di quanto non lo siamo mai stati. Provaci anche tu!

Iscriviti a yoga

Da studente reagivo con esplosività al suono della sveglia, sincronizzato ed organizzato come il Furio di Viaggi di Nozze. Azioni e tempi erano pianificati meticolosamente: i calzini (ultras) pronti a fianco dell’orologio, gli indumenti allineati nel giusto ordine, il bollitore sul piano cottura e la tavola sobriamente imbandita dalla sera prima con stoviglie da colazione e biscotti. Con gesti sicuri e decisi afferravo il mazzo di chiavi, il portafoGli, la giacca. Al momento di uscire di casa, un fugace sguardo al cielo era sufficiente per sentenziare che mi sarei lasciato la perturbazione alle spalle nei pressi del Ponte del Costone.
Dormire un quarto d’ora in più al mattino poteva fare la differenza tra una giornata affrontata da leone e una vissuta da pecora zombie. Facevo sempre tardi lavorando a qualche progetto grafico, coltivando la mia relazione d’amore a distanza o girovagando per il web.

Qualche anno dopo, faccio ancora le ore piccole: lavorando a qualche progetto grafico, coltivando la mia ex relazione d’amore a distanza – ora evoluta in matrimonio – o scrivendo sul blog. Ho un maggiore controllo sull’impulso al cazzeggio, ma la mattina ho i riflessi appannati. Al risveglio non somiglio più al riuscitissimo personaggio di Verdone, ma al più tragico Fantozzi. È come nei videogiochi: i primi schemi sono facili, perfino i mostri di fine livello non impegnano granché. Con automatismi sicuri e collaudati si avanza in scioltezza. Ora però siamo una famiglia con due bambini (ora addirittura tre n.d.r.): ci sono imprevisti e probabilità che nemmeno al Monopoli. Con maldestra appRossimazione mi destreggio tra le pacche amorevoli con le mani impastate di latte e biscotti, la cacca a sorpresa e il quizzone: “questa mattina si dispererà perché non voleva la tazza blu o perché la voleva assolutamente?”. Lì non puoi prepararti. È culo.

Ma il superboss del livello colazione è l’allineamento delle lune storte, marcato in rosso sangue anche nel calendario Maya. Lo capisco subito, appena si accende la luce della cameretta e partono gli strilli. Respiro. Chiudo gli occhi e rivivo le scene efferate di Siamo fatti così: se mi lasciAssi prendere dal nervoso, in un attimo un trombo mi occluderebbe le arterie. Scaldo il latte, mente l’istinto insiste “Iscriviti a yoga!”.

Stamattina ho fatto tardi. Raggiungendo l’ufficio con mezzi propri, non posso neanche giocarmi la carta “autobus dal balcone”.

Non so come, ho commesso un grave errore, affrontando una curva a velocità troppo elevata. La strada è in discesa e un lieve sobbalzo unito all’umidità deve aver causato l’improvvisa perdita di aderenza. L’auto ha sbandato violentemente, perdendo completamente l’asse posteriore. Una scarica di adrenalina altrettanto violenta mi ha precipitato in una scena al bullet-time, dandomi l’impressione di vivere un tempo rallentato. Ho ignorato l’impulso di sterzare bruscamente verso l’interno, compiendo un veloce controsterzo ed evitando il testacoda. Il guardrail era davvero vicino, ma ho atteso con tutti i sensi allertati il momento in cui le gomme posteriori avessero recuperato aderenza per riallineare lo sterzo e dare gas. Stavo ancora imbardando, e ho realizzato di essere sottocoppia: l’avantreno non avrebbe compiuto il balzo necessario a togliermi da quella situazione, così ho scalato bruscamente e pigiato sull’acceleratore. Ho recuperato il centro della carreggiata e domato un furioso effetto pendolo.

Il resto del viaggio è stato un’unica, complessa riflessione sull’imprudenza compiuta, sulle conseguenZe che avrebbe potuto avere e sull’efficacia dell’istinto nel tirarci fuori dai guai. Non ho mai frequentato corsi di guida sicura. Ho delle nozioni di meccanica e amo guidare, la mia auto è piccola ma sportiva, ne curo la manutenzione. Ma la differenza oggi l’ha fatta l’istinto: in poche frazioni di secondo ho gestito una situazIone complessa compiendo una serie di azioni senza averne la consapevolezza. Se avessi atteso i tempi del ragionamento, probabilmente sarei piombato nella strada sottostante e forse “Divagare nella giusta direzione” sarebbe stato l’ultimo capitolo del blog.

Ci sono errori che non andrebbero mai commessi. Guidare con imprudenza è uno di questi, e non lo rifarò. Eppure anche da questo ho imparato molto. L’istinto è un meccanismo congenito e immutabile messo a punto da un’evoluzione durata millenni. Ci spinge, ci indirizza. È quella vocina nella pancia che a volte ignoriamo, soffocandola spesso con eccEssive riflessioni. Oggi si è meritato la mia riconoscenza, e il mio impegno a prestare maggiore attenzione ai suoi suggerimenti.