Best of… anno uno

Dei calzini in cerchio, intorno a una placca blu che segnala l'inizio del 2018

È trascorso un anno dall’avvio del blog. È sembrato un battito di ciglia. Lo archivio negli anni belli: la cicogna è tornata a trovarci! Per premiare la nostra assiduità, ci ha proposto di sottoscrivere un contratto premium: ci sto riflettendo. Non sono prevenuto nei confronti dei trampolieri, ma diffido dei servizi in abbonAmento.

I calzini continuano a credere in me, insieme a tanti amici. A malincuore ho trasferito i più malandati dal cassetto al cassonetto. I pedalini, intendo. Mi sono separato degli esemplari con l’elastico cedevole, il tallone trasparente e l’oblò per l’alluce. Fulminei come abUsivi nelle case popolari, boxer e fazzoletti hanno provato ad occupare lo spazio lasciato libero, ma il Natale ha ristabilito l’equilibrio. Sotto il mio albero, filo di Scozia e motivi geometrici sono una costante più solida della programmazione di una poltrona per due. Alla fine ti ci affezioni: sarebbe strano, senza. A chi li marchia come “regali sbagliati”, rispondo che nel mio comodino c’è sempre spazio per calzini freschi e nuovi sogni nel cassetto.

In questi dodici mesi ho tentato, attraverso il blog di Ehuè, di proporre spunti per riflettere e sorridere, mettendo sempre al centro il tema dell’errore. Come quando ho pubblicato il primo articolo per secondo, omaggiando l’incommensurabile paradiso in cui viviamo. È ancora un post di grande attualità: in queste ore scienziati e astronomi di tutto il mondo sono impeGnati a risolvere i misteri di Oumuamua, un asteroide interstellare diverso da tutto quanto osservato finora. Se hai letto “Ciao Laniakea“, sono sicuro che puoi intuire la ragione del suo strano nome!
C’è chi ipotizza possa trattarsi di un’astronave extraterrestre. È l’approccio Kazzenger Voyager, che azzarda ipotesi di origine aliena per spiegare le piramidi, Stonehenge, il ciuffo di Malgioglio e la torre di Lego Duplo eretta cinque minuti fa da mio figlio.

Mi affascinano di più le teorie scientifiche spinte ma plausibili, tipo quella secondo la qUale Oumuamua sarebbe un agglomerato di materia oscura molto denso, in grado di deviare l’orbita della Terra. Ma non quanto Chuck Norris che fa le flessioni sulle braccia.

Non te l’ho detto: da qualche tempo condivido la mia passione per l’astronomia con la più brillante bimbetta di 6 anni che conosca. A suo tempo abbiamo scelto per lei il nome di una stella delle Pleiadi, e ora ci ripaga regalandoci spiazzanti dimostrazioni di vivace curiosità. La nostra recente visita alla mostra della NASA è uno dei ricordi più belli, da conservare per gli anni a venire. Il fatto che lei faccia un entusiastico resoconto della giornata ad ogni persona che incontRa, rende comunque arduo dimenticare.

Questo articolo amarcord è allo stesso modo un mezzo per non dimenticare alcuni post significativi pubblicati nel 2017. Arriva San Silvestro, e fioriscono ringrazIamenti e valutazioni. Si fanno analisi su quanto costruito, si tracciano proiezioni e obiettivi per il futuro. Come sai, preferisco rinviare i bilanci ad una bella nottata estiva, ma il clima di aspettativa e buoni auspici che ammanta la notte del veglione contagia anche me. Quindi, grazie. Buon anno. E che la filosofia Ehuè ti aiuti a compiere qualche scelta sbagliata!

Credi nell’amicizia tra uomo e donna?

Un uomo e una donna che ridono insieme

Il dibattito infiamma due fazioni contrapposte. I più numerosi sostengono che questo tipo di rapporto sia impossibile: un uomo normale non può avvicinarsi ad una donna senza covare istinti riproduttivi. E attaccano a descrivere trame libidinose, degne delle commedie del giovane Lino Banfi. Le sceneggiature allupate hanno poche varianti: gocce di Chanel per i più sofisticati, giarrettiere, discinta sottoveste o latex per altri. Tutti si aspettano, chissà perché, che un giorno l’amica ci proverà. A quel punto l’uomo non potrà tirarsi indietro, pena l’etichetta di “ricchione”. Ci sono termini e concezioni che avrebbero dovuto restare negli anni ’70, come i capelli di Banfi.

Sono sorpreso: Google appoggia lo schieramento dei negazionisti. È ovunque citata una ricerca scientifica che definisce inammissibile l’amicizia uomo donna. La tesi ruota intorno al concetto di errore: in due parole, uomini e donne si fraintendono. Lei, quasi mai attratta dall’amico, è portata a credere che il sostanziale disinteresse sia reciproco e interpreta i segnali di carattere sessuale come gesti di amicizia. Lui, in testa un solo pensiero, cade nell’equivoco contrario.

Alla base della tendenza tutta maschile a sopravvalutare i segnali di disponibilità, c’è l’obiettivo di minimizzare gli errori nella scelta del partner. La questione della riproduzione è molto cara alla selezione naturale: ogni lasciata è persa. Preoccupata dall’idea che poteSsimo farci sfuggire potenziali occasioni, madre natura avrebbe trollato il DNA maschile, marcandoci l’hashtag #JeSuisQuagmire. Siamo programmati per tromb fornicare.

Contro le evidenze scientifiche, io sto con i possibilisti. A ragioneria il rapporto maschi/femmine era di uno a sette. Non ho mai digerito ratei e risconti, ma ho scoperto una straordinaria occasione di crescita nel confronto con le compagne. Le differenze caratteriali nell’amicizia tra uomo e donna non causano litigi, sono costruttive: punti di vista diversi aprono la mente. Il rapporto segue le regole della partita doppia, dare e avere. Ciascuno può assimilare dall’altro le caratteristiche di cui è manchevole.
Il curriculum attesta che so riclassificare un bilancio, ma sono grato all’esperienza scolastica soprattutto per ciò che mi hanno insegnato le amiche: emotività, sensibilità, empatia. Con il tempo hanno smussato la mia incondizionata razionalità.

Ho osservato come gli uomini siano riluttanti all’idea di confidarsi con gli amici maschi, preferendo argomenti di conversazione leggeri che non mettano a nudo la loro fragilità. Tra donne c’è senz’altro maggiore intimità, ma si covano spesso invidie e rivalità.
I misteriosi casi di studio che giurano di vivere un’amicizia mista in modo sano e onesto, beneficiano di un confidente discreto e nutrono sentimenti di stima e rispetto reciproco. Superando ogni forma di possessività, desiderano sinceramente il bene dell’altro, e gli augurano felicità nella vita, nell’amore e nel lavoro.

L’area della relazione all’interno della quale si deve rimanere è chiamata friendzone. Ci si frequenta per il piacere di incontrarsi, apprezzando ciò che l’altro apporta nella nostra vita. La comunicazione è molto importante per evitare fraintendimenti dall’una o dall’altra parte che possano compromettere il rapporto. Sebbene un certo grado di attrazione sia quasi una costante, più o meno inconscia, l’amicizia non lascia spazio a doppi fini. Sono banditi atteggiamenti ambigui o imbarazzanti.

E se lui o lei si accorgessero di provare qualcosa di più? È d’obbligo confrontarsi ed esprimere apertamente i propri dubbi: si deciderà insieme se terminare la relazione di amicizia, dare un nome diverso al rapporto che si sta vivendo o – in assenza di altri vincoli – tentare una relazione amorosa. L’esito della quale potrebbe essere incerto: un amico è come un fratello o una sorella che conosciamo a fondo, fin nei rIsvolti più segreti. Ma il desiderio ha bisogno di mistero e l’affinità non è scontata. A vent’anni dall’uscita de “La regola dell’amico” di Max Pezzali, il ritornello rimane di grande attualità.

Io ci credo, nell’amicizia tra uomo e donna. L’intesa emotiva e l’affetto reciproco, pur essendo di qualità diverse rispetto a quelle provate per chi si ama, possono arricchire entrambe le parti.
Sono schierato con la minoranza, ma parteggio con l’entusiasmo della direttrice di banca. Ci metto la testa, ci metto il mio cuore. Due persone che stabiliscono che tra loro c’è solo un’amicizia, si assumono la responsabilità di non infrangere i paletti del loro prezioso legame. Credo che 200.000 anni di evoluzione ci consentano di imbrogliare la nostra biologia. Siamo esseri sociali e intelligenti. Almeno, alcuni di noi.

Eroe valoroso, padre affettuoso

Se ti chiedessero qual è il mestiere più difficile, che cosa risponderesti? Probabilmente, il genitore. Che siamo figli o genitori, abbiamo tutti la consapevolezza di quanto questo ruolo sia delicato: papà e mamme si misurano ogni giorno con un’infinità di potenziali errori.

Porto il nome di un eroe valoroso, ma anche di un padre affettuoso. Se è vero che nel nome si cela il destino degli uomini, era scritto che diventassi papà. Ho maturato dell’esperienza, ma non si è mai veramente preparati: ogni figlio è unico ed irrompe nella tua vita come un tackle di Montero, stravolgenDola completamente.

Freud, quello del pezzo estivo di Nek e J-AX, sostenne che crescere ed educare un figlio fosse un compito impossibile, a causa dei conflitti interiori che si gEnerano nei genitori. Però ebbe sei bambini. Non te lo aspetteresti dall’inventore della psicoanalisi!
Ad ogni modo, non si sbagliava: sogniamo tutti un erede a nostra immagine e somiglianza. Vorremmo scolpirne carattere e sfaccettature, vederlo realizzare sogni ed obiettivi che noi abbiamo mancato. Inseguiamo un riscatto tardivo. Ma un figlio è un essere umano inDipendente, non un estensione, e sceglierà sempre sentieri imprevedibili e inattesi.

Avanzando su una strada lastricata di buone intenzioni, i genitori tendono a spianare quella di fronte ai loro figli. Calpestando la filosofia che anima questo blog, tentano di impedire ai gIovani di cadere nei propri errori, finendo per rallentarne i progressi.
Difficile farne una colpa. Nuove dinamiche sociali e familiari spingono il trend del figlio unico, e i genitori a puntare sul pupo tutto il loro carico psicologico e affettivo. Rien ne va plus. Se felicità ed esistenZa stessa della coppia dipendono da quell’unica giocata, è inevitabile cadere nell’iperprotettività. Si partecIpa ad ogni momento della vita del figlio, per facilitarla, renderla meno dolorosa.
Eppure piccoli traumi ed errori sono fondamentali per crescere: le avversità sono parte della vita. Per superarle diamo il meglio di noi, scoprendo risorse nascOste e sviluppando capacità di adattamento. Quella del genitore è una sfida sul lungo periodo: i più apprensivi prediligono i benefici immediati, ma allevano figli più imbranati insicuri.

Nell’Iliade, Ettore toglie il figlio dall’abbraccio della madre e lo solleva in un gesto d’affetto, permettendogli di guardarsi intorno, aprendosi al mondo e al futuro.
Credo che il compito dei genitori si riduca a questo. Invitare i figli a prendere il loro posto nel mondo. Amarli, compreNdere la loro individualità e sostenerli nelle loro inclinazioni. Sfidare le loro capacità mentali, esercitandoli anche all’empatia e alla comprensione degli altri.

Che il ruolo del genitore ti caschi addosso o giunga consapEvolmente, mettici tutto il tuo impegno. Sarà il compito più importante che la vita ti affiderà.

Come ci arrivo a cent’anni?

Un uomo si strugge pentito su una poltrona.

Ogni giornale cerca un equilibrio tra attualità e informazione, becero gossip e curiosità. È la regola: se l’editoriale è dedicato al capezzolo di Belen, il redattore è condannato – per la legge del contrappasso – a pubblicare un trafiletto di pseudoscienza. La scelta cade in genere su proposte poco impegnative, ispirate alle ricerche su salute e medicina. Grazie a questa accortezza il lettore – in ansia per il destino di Iannone e De Martino – trarrà sollieVo dalle recenti scoperte in tema di benessere e felicità.

Col cavolo! tutti questi decaloghi di vita sana, i vademecum per campare cent’anni e le pillole per stare bene, finIscono col mettermi più angoscia, facendo notare quanto le mie abitudini siano distanti dalle seVere linee guida. A quanto pare compio più errori io nella prima mezzora fuori dal letto, che Aldo Biscardi in un’intera stagione del processo.

Ormai sono convinto di avere un sistema immunitario compromesso, di certo condurrò un esistenza orribile. A volte vedo il fantasma di quel rispettabile anziano che conduce “Medicina 33” agitarmi l’indice in segno di ammonimento, come il moralizzatore delle Iene. Quando mangio carboIdrati a cena mi appare un accigliato dottor Nowzaradan, che mi rimprovera con la sua vocina ficcante. Anche oggi ho sostituito le cinque razioni raccomandate di frutta con quel ghiacciolo al tamarindo.

Esiste un decalogo di salute per ogni cosa. Lavare la faccia ad esempio. Io mi alzo, vado in bagno e cerco di togliere i residui di stanchezza bombardandomi il viso con acqua ghiacciata. Vivo nell’errore e nel peccato. Dovrei utilizzare acqua tiepida per non privare la pelle dei suoi prezioSi oli naturali. Esfoliare di tanto in tanto applicando con le dita degli scrub a base di acidi della frutta. Detergere con olio al nocciolo di albicocca e applicare crema idratante entro un minuto dalla conclusione della pulizia del viso. Sì, vabbeh.

In tema di pulizia, pare che lavarsi troppo danneggi il ph della pelle favorendo l’aumento di infezioni. Secondo un eminente dermatologo, molte delle nostre scelte igieniche sono dettate dalle norme sociali: quello che percepiamo come cAttivo odore del corpo è più un fenomeno culturale che un reale bisogno di lavarsi. Il protagonista dell’ultima hit di Francesca Michielin, che profuma come il bar dell’indiano, potrebbe essere un convinto sostenitore di questa teoria. Io però rimango per la doccia.

Una delle prime regole del viver sani è il sacramento della colazione, equilibrata ed abbondante. Ma chi ne ha il tempo? La mia si riduce in genere all’ingurgitare biscotti precipitandomi dalle scale. Ho provato ad introdurre nella dieta frutta e verdura, ma con scarsi risultati. Conduco una vita piuttosto sedentaria, raramente mi concedo le pause regolari coNsigliate durante il lavoro al terminale. Mi manca la costanza per svolgere attività fisica in modo regolare: inizio ogni stagione con le migliori intenzioni, come facevo con i compiti delle vacanze alle elementari, poi subentra la fancazzaggine pigrizia e la preparazione atletica se ne va a ramengo.

Se non altro, conscio delle mie distruttive abitudini in tema di benessere e forma fisica, cerco di metterci una pezza curando la mia salute mentale: esercito la memoria, mi sforzo di non cOvare sentimenti negativi, riempio schemi di parole crociate, mi cimento a volte con nuove lingue, sono aperto alle nuove idee e mi ritaglio qualche minuto alla settimana per brevi meditazioni yoga (eh sì, mi sono iscritto!). Credo che potrei definirmi una “mens sana in corpore stanco”. E tu?

Elena Aiello, illustratrice

Aggiungendo gli ultimi dettagli al diorama di ViaggintemPo, già iniziavo a pensare a chi avrebbe dovuto essere il soggetto della prossima MOC. Non ci è voluto molto per individuare una nuova musa.

Ogni volta che aprivo Facebook era lì, a condividere e commentare contenUti divertenti e di ispirazione: Elena Aiello, A-rtista* B-logger* C-haracter designer* D-disegnatrice… (di straordinario talento).
Impossibile racchiuderla in poche definizioni, facile seGuirla e amarla attraverso i suoi profili social!

Caro Google, Elena merita maGgiore visibilità. Non si discute la valenza storica di una suora nata due secoli fa e delle sue inquietanti profezie di nubi infuocate e cadaveri che copriranno la Terra. Ma se uno cerca Elena Aiello, proponi almeno un link “forse stavi cercando la brillante concept artist italiana?”. Te ne sarei grato!

All inclusive, dolci al buffet

Con il casello alle spalle, mentre imbocchiamo la familiare tangenziale verso casa, già fantastichiamo sulle ferie del prossimo anno. Quelle estive, per molti italiani, sono votate alla sacra vacanza al mare. C’è chi ripone in quei 15 giorni ogni aspettativa di relax, evasione, svago e nuove conoscenze da concedersi fino all’estate successiva. È un errore: ogni giorno andrebbe vissuto alla ricerca della felicità e di piccoli spunti positivi, ma è uno di quei proPositi difficili a mantenersi, un po’ come quello di studiare ogni giorno invece di ridursi all’ultimo momento. Non ho mai creduto alla figura mitologica dello studente strategico, né all’esistenza della vacanza perfetta. Di certo a ‘sto giro ho imparato che la formula “vacanza in albergo all-inclusive”, nelle premesse già lontana dalla mia idea di libertà, non è sinonimo di pace e pieno relax rigenerante. Almeno in ore pasti.

A poche ore dalla colazione luculliana, nel rispetto della serrata programmazione giornaliera, siamo di nuovo a tavola. Dopo aver servito i primi, un cameriere si avvicina ad un tavolino e con un gesto teatrale ispirato al mago Silvan svela la macchina miscelatrice del sorbetto, fin qui celata da una tovaglia. Si allontana poi con una cErta rapidità, muovendo il drappo a mo’ di torero, come se l’orda spontanea che si sta già avvicinando avesse bisogno di ulteriori incitamenti.
C’è abbastanza sorbetto per sfamare gli abitanti di un principato per diversi mesi, ma quando intuisco l’andazzo mi avvio anch’io, pungolato nell’orgoglio del buon padre: il livello di testosterone nell’aria risveglia gli istinti primordiali. Dentro di me sento che devo procacciare il dolce al cucchiaio per la mia famiglia.

Non c’è una fila, vige la legge della giungla. A fianco del miscelatore c’è una pila di bicchierini, ma i più si sono portati i calici da 40cl e mungono la sorbettiera modellando picchi più audaci della cresta di Arturo Brachetti. Quando finisce il bicchiere, qualcuno si fa perfino un giro di sorbetto sulla mano prima di lasciare il posto al disperato dietro di lui.
Mi volto perché un tizio mi si appoggia con insistenza da dietro. È Cthulhu: ha gli occhi appallati e la bocca così piena di bucatini che fuoriescono dappertutto. Dev’essersi affrettato a svuotare il piatto servendosi una forchettata in stile “Un americano a Roma”, dimentico di non poter inghiottire bocconi più grandi del suo esofago. È cianotico, non ce la farà.

Completata l’operazione al distributore, entro in modalità All Blacks: spalle larghe e pettorali gonfi, collo infossato e occhi spiritati, proteggo il magro bottino di due bicchierini fino alla linea di meta del mio tavolo, costRetto ad assestare qualche gomitata ai più facinorosi.
Una prova del genere ti fa davvero apprezzare il sorbetto, inducendoti a centellinarlo e a decantarlo con la referenza del sommelier. Il mio, tristemente, ha un retrogusto di plastica.

Il secondo viene servito e consumato senza ulteriori colpi di scena né vittime, finché mia moglie accenna al movimento improvviso che prende vita alle mie spalle. Intorno a due grandi tavoli brulica una folla di dannati, come in un film di Romero. Mi sale l’inquietudine: stanno allestendo il buffet dei dolci. Due domatori camerieri in livrea sono schierati per preparare i piatti, ma la folla impazzita proclama l’autogestione e impugnate le spatole inizia a menare fendenti al tiramisù.

A dispetto degli stereotipi che dipingono i tedeschi un popolo morigerato e irreprensibile, italiani e alemanni si affrontano alla pari e senza esClusione di colpi. Di fronte al buffet dei dessert sale un agonismo che neanche ai mondiali del 70. Gli anarchici di entrambe le fazioni, sostenitori di un convinto “Sì al colesterolo”, si servono porzioni di torta delle dimensioni dei quadrelli da pavimentazione.

Mi getto poco convinto in questa mischia surreale, osservando le prime pirofile già ripulite. Mi colpisce un cameriere – madido di sudore come il miglior Bonolis – che compie l’estremo tentativo di portare ordine nel caos: “Un po’ di zuppa inglese la desidera?”. Un ospite gli fa eco, sollevando il mento “E cché, nno?” e gli porge il piatto, indicando lo spazio tra il montblanc e la panna cotta. Ovunque intorno a me sfilano piatti traboccanti cHe potrebbero essere abitati dalla strega di Hansel & Gretel per brevi periodi.

Due signore attempate si contendono l’ultima palla di profitterol. La tensione e l’intensità nei loro sguardi è palpabile e decido di provare più in là per non ritrovarmi coinvolto nel catfight. Trovo un omone dalle fattezze russe intento ad accatastare quattro fette di crostata su una base di muffin e salame al cioccolato. Che al tavolo lo attenda affamato l’intEro equipaggio della corazzata Potëmkin? La sua piramide non ha i basilari requisiti statici per reggersi, ma lei non lo sa e rimane in piedi. Fino all’imboscata tesa dalla gamba di un seggiolone. «Jenga!» – mi sorprendo ad esclamare ad alta voce.

Ma io, perché sono qui? Sono anche sazio! Prima di farmi del male, opto per quattro mini porzioni di panna cotta facilmente reperibili e faccio ritorno al tavolo dei miei affetti. L’anno prossimo campeggio estremo. Dall’idea che mi sono fatto guardando The Revenant, spartire il salmone con gli orsi affamati sarà un’esperienza più rilassante.

And #Lego_omaggio goes to… Viaggintempo!

Nel giugno 2017, per gioco, inauguro una mini rubrica nell’account Facebook di Spiegolego. L’idea è reaLizzare delle MOC (creazioni originali, o My Own Creation) con i mattoncini Lego, per rendere omaggio alle pErsone o ai progetti che mi hanno ispirato.

Con l’hashtag #Lego_omaggio dedico il primo pensiero a Viaggintempo, una bella raccolta di consiGli di viaggio a cura di Paola Giammaria, che cattura già dall’incipit:

“Quando ero bambina il mio libro preferito era l’Atlante geoGrafico.
Il mio passatempo favorito era mettere delle bandierine sui luoghi che desideravo visitare. Quando sOno cresciuta, ho iniziato a ricercare le mie bandierine nel Mondo.”

Io invece da piccolo andavo forte con i Lego. Più paziente di un uomo che porti a spasso la sua tartaruga – o dell’automobilista che tallona il milanese col cappello – ho atteso per anni, soffrenDo all’idea dei blocchetti stipati al buio della soffitta.

L’alibi perfetto per rispolverare i mattoncini e arricchire la vecchia collezione è infine arrivato con la paTernità. Figliare nasconde vantaggi inaspettati!

Play

Quante volte hai ascoltato una canzone pensando che fosse scritta per te? Succede continuamente. La ascolti e la canti, e più la ricanti più te la senti addosso, plasmandone il significato perché ti vesta a pennello. Il fenomeno è più frequente nell’adolesCenza, quando le tempeste ormonali e le turbe sentimentali ti sparano sulle montagne russe: un giorno ti senti al settimo cielo, quello dopo stai da schifo. Dal Blue Tornado alla Blue Whale.

Un colpo di fulmine, una cotta da capogiro, una rottura burrascosa… non importa. Accendi la radio e il pezzo parla di te. Ma che ne sa l’autore? Mi spia? Controlli lo smartphone e per un attimo ti sfiora l’idea che dietro quella minicamera si nasconda un Grande FrAtello dell’industria musicale, intento a buttar giù febbrili appunti ad ogni inciampo o sbandata che prendi. Vabbé sticaz Ma in fondo, farebbe differenza? Già ti profilano ovunque, dal supermercato al web, alla palestra. Fai spallucce e alzi il volume, chissà che il pezzo non ti riveli qualcosa del tuo futuro?

Qualcuno suggerisce di memorizzare nella rubrica del cellulare, sotto l’abbreviazione standard ICE (In Case of Emergency), il numero della persona che vorresti fosse informata se ti trovi coiNvolto in un incidente. Potrebbe aiutare i soccorritori. Ho un’altra idea: scegli una canzone che ti esalta, e che ti rende felice. Caricala nel tuo lettore, potrebbe aiutare te.

La canzone giusta al momento giusto ha un potere enorme: può darti la scossa per voltare pagina se la tua vita si è incartata in un capitolo buio, può suggerirti l’opzione giusta o quella sbagliata, farti riconsiderare una decisione avventata. Può persino salvarTi sull’orlo del precipizio, come sostiene Max Gazzé. Ricordalo se è il cinquantesimo giorno e ti trovi sulla cima di un palazzo: è il momento di scorrere la playlist fino al tuo pezzo ICE, e di recuperare la gioia di vivere.

Nel blog celebro spesso il risvolto positivo degli errori, opportunità di approcciare un problema con occhi diversi. Da un salto nel buio può scaturire un’occasione vantaggiosa: osAre un approccio con il ragazzo o la ragazza che ti piace, avviare un’attività, trasferirti alla ricerca di un nuovo inizio, sono scelte che potrebbero dare una svolta positiva alla tua vita.
Nulla di buono può invece scaturire da un salto nel vuoto, da cui non c’è ritorno. Il coraggio è una dote indispensabile, ma va canalizzato nella giusta direzione. Volare va bene, ma in senso figurato, come suggerito dall’improbabile featuring di Rovazzi e Morandi: trovando ogni giorno un motivo per sorridere e divertirci.

Lasciamoci contaminare da tutto quanto di bello e positivo ci circonda: il blu e la malinconia lasceranno spazio ad emozioni di tutte le sfumature dell’arcobalena.

Dentro lo zaino

Oggi, ricordando il mio plurirattoppato glorioso zaino Microchip, ho sguinzagliato Google alla ricerca dei modelli più in voga degli anni 90. Imbarcarmi nella ricerca è stato un errore: ho buttato un’ora di tempo, sottraendolo ad attività più utili, e senza trovaRe uno straccio di immagine che documentasse l’esistenza di quella mitica reliquia.

L’effetto nostalgia è un impulso potente: in stato di ipnosi ho passato in rassegna una galleria psichedelica di zaini Seven e Invicta. Chiunque abbia frequentato in quegli anni scuole di ogni ordine e grado, in quelle improbabili tinte evidenziatore declinate in grafiche a casaccio, ci ha lasciato il cuore.

I modelli erano essenziali: grande vano per il materiale scolastico e tascone anteriore spappola merendine. Tele immacolate nelle mani di artisti estrosi, al secondo quadrimestre c’era più inchiostro su quegli zaini che sulla pelle di Fedez: le ragazze vi appuntavano le iniziali dell’ultima cotta, si scambiavano dediche giurandosi etErna amicizia e trascrivevano passaggi dalle canzoni preferite. I ragazzi, più sobri, si limitavano in genere a professare la loro fede calcistica.

Hai presente il classico spot del detersivo per pavimenti? Incrostazioni alte due dita che neanche a Pompei dopo l’eruzione vulcanica, lasciano il posto al candore abbagliante dopo una fugace passata di straccio. Ebbene, ricordi sepolti da vent’anni sono riaffiorati di colpo, vividi come non mai. SfoGliavo le immagini degli zaini sul monitor e rivedevo i volti dei compagni di scuola che li avevano indossati.

Eravamo timidi scolaretti delle elementari, con i pugni stretti intorno ai grandi spallacci. Ad ogni passo lo zaino, enorme, rinculava colpendoci l’incavo delle ginocchia, conferendo la tipica andatura dinoccolata. Sussidiario e quadernone, maestro unico. Il bambino che per primo perse il papà aveva lo zaino blu e verde. Per molti fu uno shock elaborare la possibilità che un lutto tanto drammatico potesse colpire proprio noi.

Crescevamo in fila per due: tartarughine dai gusci variopinti a predominanza rosa shoking e verde fluo. Il mio amicone con lo zaino giallo e verde cadde e si ruppe gli incisivi. Alle medie ammiravo la compagna con lo zaino fucsia a fantasia leopardata per i suOi brillanti risultati scolastici e i capelli biondissimi. Gli zaini – compagni insostituibili della nostra quotidianità – apparivano meno oversize, attraversando indenni le tante mode passeggere: ciuccini, schede telefoniche e collane tatoo.

I ricordi più indelebili sono quelli dell’adolescenza. Coincidono con quelli della progressiva, solida e duratura affermazione della personalità. È il periodo in cui diventiamo veramente noi stessi, e la nostra memoria fissa quei momenti con una dovizia di particolari, colori, suoni e profumi che non ha eguaLi. Alcuni oggetti ci identificano in maniera univoca, anche a distanza di anni: ricordo l’Alcatel di Sabrina, l’orologio di Lorena, il maglione giallo di Simone; ma sono stati gli zaini scolastici i veri totem dell’infanzia e dell’adolescenza dei “millenials per un pelo”.
Alle superiori, per fare i fighi, portavamo gli zaini su una spalla sola, antesignani dell’Ispettore Catiponda. Molti di noi non hanno mai recuperato la simmetria, e conservano intatte le emozioni, le canzoni e la scoliosi di quegli anni.

Gli antichi ritenevano che la sede della memoria fosse nel cuore. Oggi sappiamo che non è così, ma l’etimologia della parola “Ricordare”, dal latino Re- e Cordis (cuore), suggerisce in maniera molto poetica come rivivere i ricordi li faccia ritornare dalle parti del cuore. Al ritmo dei battiti viaggiamo a ritroso nel tempo, riportando alla luce vissuti, paure e desIderi solamente nostri, riuscendo ad emozionarci come la prima volta. A conti fatti, il tuffo nel passato scaturito dalla mia ricerca non è stato tempo perso. Un’emozione non lo è mai.

La voce e il buio

Si dice che non si decida di diventare un attore o un doppiatore. Semplicemente, lo si è già. Nel mestiere che non ho scelto di praticare, all’interno di una stanza buia con la sola compagnia di un copione, uno schermo e un microfono davanti a sé, l’errore è all’ordine del giorno.

Si sbaglia nell’articolare una parola, ci si perde tra i labirinti semantici di righe contorte e frasi spesso difficili da pronunciare, non si riesce a rispettare il labiale di chi si sta doppiando. Un attore ride, piange, si emoziona e si dispera per noi e per se stesso. Ci consegna una vita che non è la nostra e non è la sua. Persino il suo silenzio, tra una battuta e l’altra, naviga su frequenze che raramente riusciamo a percepire. Cerca il suo equilibrio e, molto spesso, è proprio il non trovarlo a consacrarne il genio.

“Buona, andava bene! Ma sei un po’ scivolato sul finale, ne facciamo un’altra per sicurezza!”. Questo e molto altro è ciò che un direttore (il regista nel campo del doppiaggio) si trova a dover pronunciare varie volte nell’arco di una giornata lavorativa. Eppure, sa benissimo che la seconda prova – seppur magistrale nella musicalità e nell’articolazione – perderà quella scintilla di spontaneità cui il doppiatore si era affidato all’inizio. Semplicemente, non avendo attivato i centri razionali del cervello, per un attimo infinitesimale era stato egli stesso quella battuta.

Capita spesso, soprattutto in film molto vecchi, di imbattersi in doppiaggi non perfetti stilisticamente: voci sporche, audio grezzo, stacchi troppo marcati. Il suono però, di per sé, non esiste senza una fonte ricettiva a percepirlo: ecco perché, in una lavorazione perfetta stilisticamente, il nostro cervello ci porterà a sentire la mancanza di quell’errore, la parte più umana dell’attore.

La memoria acustica, similmente a quella fotografica, va a ricercare suoni a noi familiari che sappiano calmarci, donarci conforto, benessere e protezione. Il medesimo procedimento si verifica anche quando è lo spettatore stesso a cadere in un abbaglio: quanti sarebbero disposti ad accettare che, nel film “The Mask”, il tormentone non fosse “spumeggiante” bensì “sfumeggiante” (dall’inglese “smokin’”)? Che la regina cattiva di Biancaneve non dicesse “specchio, specchio delle mie brame” ma “specchio, servo delle mie brame”? Che la “supercazzola” di “Amici miei” in realtà fosse una “supercazzora”?
L’errore è parte della nostra biologia, è ciò che ci rende umani: ci distingue da un indefettibile orologio atomico che perde solamente un secondo ogni cinque miliardi di anni ma di cui nessuno avrà mai memoria.

Ci impegniamo a costruire macchine efficienti e infallibili: nel lavoro proviamo a emularle, a sbagliare il meno possibile, a essere perennemente performanti e inattaccabili. Dimentichiamo che nella nostra vivace fantasia letteraria ogni robot futuristico lotta con le unghie e con i denti con viti e cingoli per poter diventare umano: chi non ricorda l’emozionante finale de “L’uomo bicentenario”, in cui l’androide Andrew preferisce morire da essere umano piuttosto che vivere per sempre come macchina?

L’errore ci eleva, così nella recitazione come nella vita: d’altronde, anche il miglior comico del mondo non riuscirebbe a far ridere alcuno senza aver prima conosciuto la sofferenza egli stesso.

Alessandro Bianchi, doppiatore e speaker